“Io so il filo che mi lega alle
lasagne ma non conosco il filo che mi lega alle montagne”
Inizia così una bellissima poesia di
Antonio Catalano. Mi fa venire in mente quanto sappiamo dei nostri
bisogni materiali quanto poco sappiamo della natura. Di quanto ci
sentiamo grandi e potenti e di quanto, invece, siamo piccoli. Piccoli
come un sassolino, in basso, in un angolo, dietro un vastissimo
panorama. Io mi sento sassolino e non è male, vi dirò. Ne sono
cosciente e ne sono felice. Non posso fingermi gigante, perchè non
lo sono. Ma non mi sento triste per questo, perchè so che tutto
parte anche solo da un sassolino, da un semino, da una piccola
goccia. Il guaio è quando la goccia si crede mare, quando il
sassolino montagna, quando il semino foresta.
Sono cresciuta in città, tutta la
natura per me è stata sempre il mare, visto dalla spiaggia, dal
bagnasciuga. Pizzetta, ghiacciolo e secchiello. Un mare di telline,
di granchi, spalle cotte dal sole. Tutta la natura era lì, per me.
Quando non era alla pineta, con la sabbia e la terra, il laghetto
delle papere, i cigni, le anatre. Tutta la natura era lì. Poi è
arrivata la campagna, la casa dei miei genitori vicino Penne,
nell'ormai tristemente nota Farindola. Un paese sconosciuto, prima
della valanga, un paese come ce ne sono tantissimi in Abruzzo, una
miriade di paesi. Una costellazione di paesi, piccoli, belli, brutti,
desolati, albergati, termali, dormitori, appollaiati, infossati,
illuminati, incastonati, umili, spogliati, nascosti, ignorati,
ricostruiti, affaticati, demoliti, trasparenti, ariosi, ventosi,
antichi, remoti, tramutati, terremotati, imbruttiti, resistenti. La
campagna, la collina, il fiume con i girini, le rane, i serpentelli.
Coltello e bastone, calci al pallone,
che poi cadeva nel fiume ed era tutta un'avventura andarlo a
recuperare, certe volte il fiume se lo portava via. E penso che lo
facevamo un po' apposta, io e mio cugino, a far andare il pallone nel
fiume, per crearci l'avventura di andarlo a recuperare. Ci
inzuppavamo, i miei genitori non mi sgridavano, mi lasciavano fare,
anche quando mi cacciavo in piccoli guai. E poi c'era l'orto,
pomodori “sammarzano”, pomodori pachino, pomodori a pera,
pomodori cuore di bue. Li chiamavo per nome. Mio padre faceva il buco
con “lu pire” e io facevo scendere il semino nel buco nella terra
e lo ricoprivamo. Poi usciva la piantina, mettevamo le canne,
osservavo mio padre che attaccava la piantina alla canna. Gli facevo
tante domande e cantavo per tenergli compagnia. Le canzoni me le
inventavo io... Povero papà! Le lumache, la loro tana, le orme del
cinghiale, le noci colpite con un lungo bastone, facevamo a gara a
chi ne raccoglieva di più. Le amarene, diverse dalle ciliegie. Le
ciliegie sono più grandi e dolci, le amarene sono piccole, scure e
amare. Mio padre che prova a fare un innesto. Il pero selvatico di
nome “Andy” su cui mi arrampicavo. Il mio concetto di natura
iniziava notevolmente ad allargarsi. Il fango, i rospi che se li
tocchi ti schizzano un liquido che ti trasforma in un rospo pure a
te, vassoi di pane e pomodoro e basilico divorati sotto il cachi, il
cielo stellato. Ma quante stelle ci sono? Io tutte quelle stelle le
ho viste tutte lì per la prima volta. Il suono del fiume che, ora
che ci penso, è un ruscello, ma per me era un fiume. Quell'anno che
il fiume s'ingrossa e fa paura e arriva al livello dell'argine e
vicino al giardino. La prugna regina, dolcissima. Le fave e i
cetrioli. La volpe, le pecore, le galline, i pulcini. Il maiale. La
macchina per fare le salsicce. Scopro che la pellicina intorno alle
salsicce, che mia madre mi dice sempre di togliere e invece a me
piace tanto mangiare, in realtà sono le budella del maiale.
Lunghissime. La casa di Nazareno e Carina, due contadini
meravigliosi, gentilissimi. Nazareno col naso rosso, agilissimo, sale
sulle piante, ci offre sempre il vino e l'allegria. Carina,
accogliente, sorridente, mani d'oro, mai di fata, cuore di mamma. Un
bambino con un caschetto che suona uno strumento strano, si chiama
organetto, la sua voce mi ritorna nei ricordi, cantava: la gioventù
ca nin murisse maje. Manuel si chiamava quel bambino e oggi fa il
musicista. La natura era tutta lì e si aggiungeva un'umanità nuova,
sconosciuta in città. Quando tornavo in città mi sembrava di essere
stata in un universo parallelo. La quercia grossa. Una quercia
centenaria, enorme, pacifica e meravigliosa dove ho sognato di vivere
e arrampicarmi, e lo sogno ancora. L'unico posto dove prendeva il
telefono, sotto la quercia. Poi per fortuna la quercia decise che
manco lì doveva prendere il telefono e quindi da casa, per
telefonare, bisogna fare più di un chilometro. Il ramarro! C'è ma
non si vede e quando lo scopri...papà ho visto un mostro verde
enorme stranissimo che mi guardava!! Papà ho visto una strana
farfalla con quattro ali e due teste! E papà: ne sono due. E io:
come due? Papà: stanno facendo l'amore. E io: che schifoooo!
E tutta la natura era lì-
E io sono solo un piccolo piccolo
sasso.
….fine prima parte!
“Io so il filo che mi lega alle
lasagne
ma non conosco il filo che mi lega alle
montagne
un lungo filo teso tra montagna e
collina
per appendere panni bianchi e carta
velina
Filo per filo segno per segno
come un grande enorme disegno
dove io sono disegnato là in basso
proprio come un piccolo piccolo sasso
Un filo dal fondo del mare abissale
lungo fino a un pianeta ovale
giusto adatto per appendere pensieri
quelli gialli antichi quelli di ieri
filo per filo segno per segno
come un grande enorme disegno
dove io sono disegnato in là in basso
proprio come un piccolo piccolo
sasso...”
(…..continua.....)
(Antonio Catalano)