domenica 29 gennaio 2017

Lasagne e montagne




“Io so il filo che mi lega alle lasagne ma non conosco il filo che mi lega alle montagne



Inizia così una bellissima poesia di Antonio Catalano. Mi fa venire in mente quanto sappiamo dei nostri bisogni materiali quanto poco sappiamo della natura. Di quanto ci sentiamo grandi e potenti e di quanto, invece, siamo piccoli. Piccoli come un sassolino, in basso, in un angolo, dietro un vastissimo panorama. Io mi sento sassolino e non è male, vi dirò. Ne sono cosciente e ne sono felice. Non posso fingermi gigante, perchè non lo sono. Ma non mi sento triste per questo, perchè so che tutto parte anche solo da un sassolino, da un semino, da una piccola goccia. Il guaio è quando la goccia si crede mare, quando il sassolino montagna, quando il semino foresta.

Sono cresciuta in città, tutta la natura per me è stata sempre il mare, visto dalla spiaggia, dal bagnasciuga. Pizzetta, ghiacciolo e secchiello. Un mare di telline, di granchi, spalle cotte dal sole. Tutta la natura era lì, per me. Quando non era alla pineta, con la sabbia e la terra, il laghetto delle papere, i cigni, le anatre. Tutta la natura era lì. Poi è arrivata la campagna, la casa dei miei genitori vicino Penne, nell'ormai tristemente nota Farindola. Un paese sconosciuto, prima della valanga, un paese come ce ne sono tantissimi in Abruzzo, una miriade di paesi. Una costellazione di paesi, piccoli, belli, brutti, desolati, albergati, termali, dormitori, appollaiati, infossati, illuminati, incastonati, umili, spogliati, nascosti, ignorati, ricostruiti, affaticati, demoliti, trasparenti, ariosi, ventosi, antichi, remoti, tramutati, terremotati, imbruttiti, resistenti. La campagna, la collina, il fiume con i girini, le rane, i serpentelli.

Coltello e bastone, calci al pallone, che poi cadeva nel fiume ed era tutta un'avventura andarlo a recuperare, certe volte il fiume se lo portava via. E penso che lo facevamo un po' apposta, io e mio cugino, a far andare il pallone nel fiume, per crearci l'avventura di andarlo a recuperare. Ci inzuppavamo, i miei genitori non mi sgridavano, mi lasciavano fare, anche quando mi cacciavo in piccoli guai. E poi c'era l'orto, pomodori “sammarzano”, pomodori pachino, pomodori a pera, pomodori cuore di bue. Li chiamavo per nome. Mio padre faceva il buco con “lu pire” e io facevo scendere il semino nel buco nella terra e lo ricoprivamo. Poi usciva la piantina, mettevamo le canne, osservavo mio padre che attaccava la piantina alla canna. Gli facevo tante domande e cantavo per tenergli compagnia. Le canzoni me le inventavo io... Povero papà! Le lumache, la loro tana, le orme del cinghiale, le noci colpite con un lungo bastone, facevamo a gara a chi ne raccoglieva di più. Le amarene, diverse dalle ciliegie. Le ciliegie sono più grandi e dolci, le amarene sono piccole, scure e amare. Mio padre che prova a fare un innesto. Il pero selvatico di nome “Andy” su cui mi arrampicavo. Il mio concetto di natura iniziava notevolmente ad allargarsi. Il fango, i rospi che se li tocchi ti schizzano un liquido che ti trasforma in un rospo pure a te, vassoi di pane e pomodoro e basilico divorati sotto il cachi, il cielo stellato. Ma quante stelle ci sono? Io tutte quelle stelle le ho viste tutte lì per la prima volta. Il suono del fiume che, ora che ci penso, è un ruscello, ma per me era un fiume. Quell'anno che il fiume s'ingrossa e fa paura e arriva al livello dell'argine e vicino al giardino. La prugna regina, dolcissima. Le fave e i cetrioli. La volpe, le pecore, le galline, i pulcini. Il maiale. La macchina per fare le salsicce. Scopro che la pellicina intorno alle salsicce, che mia madre mi dice sempre di togliere e invece a me piace tanto mangiare, in realtà sono le budella del maiale. Lunghissime. La casa di Nazareno e Carina, due contadini meravigliosi, gentilissimi. Nazareno col naso rosso, agilissimo, sale sulle piante, ci offre sempre il vino e l'allegria. Carina, accogliente, sorridente, mani d'oro, mai di fata, cuore di mamma. Un bambino con un caschetto che suona uno strumento strano, si chiama organetto, la sua voce mi ritorna nei ricordi, cantava: la gioventù ca nin murisse maje. Manuel si chiamava quel bambino e oggi fa il musicista. La natura era tutta lì e si aggiungeva un'umanità nuova, sconosciuta in città. Quando tornavo in città mi sembrava di essere stata in un universo parallelo. La quercia grossa. Una quercia centenaria, enorme, pacifica e meravigliosa dove ho sognato di vivere e arrampicarmi, e lo sogno ancora. L'unico posto dove prendeva il telefono, sotto la quercia. Poi per fortuna la quercia decise che manco lì doveva prendere il telefono e quindi da casa, per telefonare, bisogna fare più di un chilometro. Il ramarro! C'è ma non si vede e quando lo scopri...papà ho visto un mostro verde enorme stranissimo che mi guardava!! Papà ho visto una strana farfalla con quattro ali e due teste! E papà: ne sono due. E io: come due? Papà: stanno facendo l'amore. E io: che schifoooo!

E tutta la natura era lì-

E io sono solo un piccolo piccolo sasso.



….fine prima parte!




“Io so il filo che mi lega alle lasagne


ma non conosco il filo che mi lega alle montagne


un lungo filo teso tra montagna e collina


per appendere panni bianchi e carta velina





Filo per filo segno per segno


come un grande enorme disegno


dove io sono disegnato là in basso


proprio come un piccolo piccolo sasso





Un filo dal fondo del mare abissale


lungo fino a un pianeta ovale


giusto adatto per appendere pensieri


quelli gialli antichi quelli di ieri





filo per filo segno per segno


come un grande enorme disegno


dove io sono disegnato in là in basso


proprio come un piccolo piccolo sasso...”



(…..continua.....)



(Antonio Catalano)