martedì 11 settembre 2018

Manifesto di un teatro errante

Manifesto di un teatro errante


Bradamante è un’eroina del ciclo carolingio, donna coraggiosa, umile e leale che è cavaliera errante e protettrice della sua terra.
Bradamante appartiene alla terra di racconti erranti che, a cavallo dell´immaginazione, percorrono i crinali dove si incontrano storie e personaggi di confine. La parola è la sua spada, le radici la sua armatura, i suoi compagni il vento della musica e dei racconti, i profili delle montagne, il suono del mare, i viaggiatori, i luoghi in cui si ferma.

I 10 PUNTI DEL MANIFESTO

  1. Teatro di mare, terra e vento, teatro che non nasconde il suo accento. Teatro di geografie interiori, teatro che attraversa e valorizza i territori.
  2. Teatro che è giardiniere del suo piccolo paese, perché è convinto che nel piccolo ci sia anche il grande. Che si batte per la diffusione della poesia, con i piccoli gesti di tutti: piante, animali, persone, universo creato.
  3. Teatro che vuole avere cura e amore ad ogni passo, rispettando le differenze e cercando i punti di incontro. 
  4. Teatro errante, non per fuggire ma che sia come le onde del mare nel suo costante andare e rivenire. Che sappia trovare l’utile in ciò che molti pensano sia inutile (come osservare le nuvole, il volo degli uccelli o la crescita di una foglia).
  5. Un teatro che sta dalla parte degli ultimi, di chi non ha voce, di chi ha ancora forti speranze. Un teatro contro il neocapitalismo che divora il pianeta, consumandolo, derubandolo della sua bellezza, creando enormi disparità nella distribuzione della ricchezza, impoverendo la cultura e creando bisogni effimeri. Un teatro che sappia resistere ed opporsi alle ingiustizie, lottando pacificamente attraverso la poesia, la cultura, la condivisione perché “nessun mutamento storico è possibile senza passare per il cuore dell’uomo”, direbbe Sandro Cianci.
  6. Un teatro che sa anche stare da solo, che sappia fare anche il vuoto, che non cerca di riempire un contenitore, un teatro che sia fatto di cuore.
  7. Un teatro che osservi e racconti il mutamento ,che proponga riflessioni incontrando l’altro e sfidando lo scoramento.
  8. Un teatro dei paesi, anche quelli feriti, soli, pietrificati, che sappia portare luce e illuminare i sentieri dimenticati.
  9. Un teatro delle città che vada a raccogliere, svelare, raccontare quella città visibile ma, soprattutto, invisibile. 
  10. Un teatro che ha scelto il mondo come casa: sotto le stelle, nelle piazze, nei teatri, nelle scuole, sulle aie, in montagna, nelle case, in riva al mare, nello sguardo dei bambini, sotto un albero di fico... Ovunque ci sia ascolto si può creare uno spazio e una piccola comunità ariosa, dove il vento, che non è mai lo stesso, ci porta e ci trasporta. Giuliano Scabia ha scritto: “Il teatro è un carro pieno di vento.”


Cari amici, il 5 luglio 2018 abbiamo inaugurato, con una bellissima festa nel giardino di Casa D'Amico, l'Associazione Culturale Bradamante - Teatro Racconto Territori - abbiamo raccontato delle avventure di Bradamante e Ruggero tratte da "L'Orlando Furioso" di Ludovico Ariosto, abbiamo letto e condiviso con voi questo "Manifesto di un Teatro Errante" e cenato tra gli alberi di fico in un giardino che è una piccola oasi nella città, a Rancitelli, quartiere popolare di Pescara, sede legale della nostra associazione.
E' stata una serata meravigliosa, piena di promesse e di sogni, di proiezioni (anche cinematografiche, grazie alla presenza del filmmaker Antonio Di Biase) di danze e canti (grazie a tutti i partecipanti danzanti e, in particolare, ai suonatori Massimiliano Di Carlo e Matteo Di Claudio).
La rassegna "Paesi in forma di rosa" è stata in quella sera lanciata nel cielo come un'astronave che, durante l'estate, è atterrata in luoghi di rara e preziosa bellezza del nostro Appennino. Ma di questo vi racconteremo in un altro post…
E' intanto attivo il sito internet www.bradamanteteatro.it dove potrete trovare i prossimi appuntamenti, gli spettacoli, le narrazioni, gli incontri e i laboratori per questa stagione 2018/2019.


Al galoppoooo!

Francesca Camilla D'Amico

Sullo sfondo il massiccio della Majella, da Roccacaramanico (PE) 
durante lo spettacolo "Maja" per la rassegna "Paesi in forma di rosa". 5 agosto 2018.









Locandina e foto di "Bradamante al vento!" festa di inaugurazione dell'Associazione Bradamante
, Casa D'Amico, Rancitelli, Pescara, Mondo. 5 luglio 2018.


venerdì 20 aprile 2018

Lettera agli spettatori e agli amici di Muré Teatro


Care amiche e cari amici di Muré Teatro,

scrivo questa lettera a voi che ci avete sostenuti e seguiti in questi anni perché,  in qualità di co-fondatrice di questa associazione, sento di voler aggiornarvi su quello che è accaduto negli ultimi mesi, per quanto riguarda il nostro gruppo. Ci tengo a precisare che tutto ciò che segue è il mio unico e quindi parziale punto di vista sulla nostra situazione.

Come  solo alcuni di voi sapranno, Muré Teatro a breve chiuderà i battenti. A partire dal 2015, nel momento forse più impegnativo ma anche più bello del nostro percorso artistico, dopo lo spettacolo “Courage!” e la finale al Premio Scenario per Ustica, abbiamo vissuto alcune divergenze personali e artistiche. Inizialmente sembrava che potessimo  superare, con un po' di cure e di attenzioni,  un male che consideravo, tutto sommato, passeggero. Purtroppo non è stato così.

Come sempre accade nei gruppi che si sciolgono, le responsabilità  o le scelte non appartengono ad un solo individuo  e non intendo qui elencare le motivazioni di ciascuno. Sicuramente, più che di colpe, spesso si è trattato di inconsapevolezza, di decisioni prese troppo in fretta, di un pensiero che, a volte, era in contrasto con la vocazione associativa del gruppo e altro ancora.

 La crisi, non  solo artistica ma anche relazionale, inzialmente ci ha permesso di lavorare ancora un pò insieme per altri spettacoli:  il reading teatrale “Fontamara” e  “Una bella volta”, il trekking teatrale che è nato proprio da un’esigenza di uscire dal teatro e sperare che quest’aria rinvigorisse anche il gruppo che, nel frattempo, aveva già perso due validissimi elementi come Sebastian Giovannucci e Martina Morgione, accogliendo Andrea Di Giovanni e lasciando me e Marcello Sacerdote gli unici elementi fissi.
Anche qui, nonostante il successo della proposta di teatro in natura, non ci siamo ricompattati e abbiamo nuovamente perso pezzi.
Il bisogno di seguire inclinazioni artistiche personali e di trattare tematiche differenti, seppur simili e inerenti al nostro territorio, ha portato me e Marcello a lavorare su due spettacoli diversi (“Lupo In-Canto” e “Maja”) e con nuove collaborazioni, esterne a Muré, per quanto riguarda la Commedia dell’Arte.  Momenti che certamente hanno contribuito a far crescere maggiormente noi come attori e ad aggiungere anche modalità nuove di lavoro come il passaggio dalla dinamica della creazione collettiva a quella dell’attore-narratore solo in scena che, fino ad allora, non avevamo ancora sperimentato.
Successivamente, ci siamo messi in testa di dare un segnale alla città di Pescara  della nostra presenza sul territorio e del nostro amore per la cultura popolare e la memoria. Per fare questo abbiamo scelto il Museo delle Genti d’Abruzzo e la rassegna “La Casa della Memoria”. Nonostante la rassegna avesse registrato sempre il tutto esaurito, ormai, la famosa crisi era in uno stato avanzato.  Così anche la ressegna estiva “Teatro nel Borgo” è stata più simile ad un’iniziativa personale che ad un progetto della compagnia.

L’amicizia decennale con Marcello, l’affetto per il compagno di teatro con il quale ho condiviso ogni impresa di lavoro e di studio, fianco a fianco, mi impedivano di andarmene sola per la mia strada. Tra le motivazioni che mi trattenevano c’era anche la consapevolezza di aver creato, insieme ad altri, qualcosa che iniziava a camminare con le sue gambe, che aveva una sua poetica e una sua forma, che iniziava ad avere riconoscimenti, anche a livello nazionale. Il frutto di un lavoro quotidiano e professionale.

Le situazioni di tensione che, di volta in volta, si andavano creando e accumulando, mi hanno portato via moltissime forze, esasperando l’insofferenza che già mi portavo dentro.  C’è un punto in cui intestardirsi serve solo a farsi del male. Dopo due anni di “testate”, ma anche di mediazioni, la fatica nel trovare equilibri che puntualmente si rompevano in poco tempo, ha segnato, con una sofferenza per me grande, la decisione meditata tra mille dubbi e riflessioni, di abbandonare la barchetta di Muré. Decisione che è stata accolta con molto dispiacere ma anche con una rabbia che non riesco in cuor mio a giustificare, visto che non si trattava di una decisione piovuta dal cielo, ma di qualcosa che già era nell’aria e di cui mi sono trovata a parlare diverse volte con i miei compagni, vista la nostra situazione. Tra novembre e dicembre ho comunicato a Marcello la mia decisione di lasciare l’associazione. Da allora ho scelto di portare avanti “Maja”, uno spettacolo che è stato uno dei “figli” di Muré Teatro che non poteva essere abbandonato e doveva continuare a camminare e a crescere, così come “Lupo In-Canto”. Quindi ci è sembrato giusto non sospendere le repliche di questi lavori che sono strettamente legati a noi in quanto attori e persone. Quello che abbiamo sospeso sono stati tutti gli altri spettacoli in repertorio e  quelli in costruzione.
Inoltre, per noi, se uno dei fondatori abbandona, Muré non è più lo stesso e non può navigare, perché tutto è nato e si è sviluppato principalmente su nostre idee e nostri sacrifici dopo che Manuel Borgia, l’altro fondatore di Muré oltre me e Marcello, aveva preso altre strade.

La storia che vi ho appena raccontato, in fondo, è una piccola storia di piccoli successi ma anche di fatiche, slanci, visioni, di un piccolo gruppo di giovani attori che ha tentato l’impresa di essere insieme di persone in viaggio, in un grande mondo di individualismi. L’impresa di fare teatro oggi, nel nostro Paese, senza nessun tipo di contributo economico da enti e istituzioni, basandosi unicamente sul proprio lavoro e sul dialogo con il pubblico e il territorio.
Pur riconoscendoci qualità artistiche, organizzative, umane, non siamo riusciti a restare uniti. 
Conosco i motivi di questo fallimento e riconosco quando una partita è persa e non serve dire che l’arbitro era distratto, ecc… L’inseperienza e i limiti personali segnano spesso la fine di un percorso. Altre volte si riesce a continuare ad andare avanti, con le stesse persone, ma riflettendo sui propri errori, correggendo, migliorando. Farlo insieme è  spesso complesso e faticoso e, a onor del vero bisogna dirlo, noi non ci siamo riusciti, di certo non per pigrizia.
Come disse lo storico allenatore di pallavolo della Nazionale maschile e femminile Julio Vèlasquez, non bisogna cadere nella “cultura degli alibi”, una pratica che conduce ad attribuire ad altre persone o ad altri fattori le responsabilità personali.  Vincere significa superare i propri limiti e risolvere le difficoltà. Con questo, sempre per dirla con l’allenatore argentino, non vuol dire che siamo dei perdenti ma che abbiamo fallito degli obiettivi.

Io, prima di lasciar sbocciare il fiore del futuro,  non potevo non chiudere questa porta senza dirvelo, perché voi che siete venuti ai nostri spettacoli, amici che ci avete aiutato in ogni modo, viaggiatori che ci avete incontrato solo una volta, pubblico che ci segue dai nostri primi passi da allievi, è GRAZIE A VOI che abbiamo potuto scrivere la nostra piccola e breve storia, è grazie a voi che oggi riusciamo a fare questo mestiere perché voi ci avete concesso, con la vostra presenza, le vostre opinioni, la vostra stima, l’affetto, il sostegno economico, di farci viaggiare dentro il teatro stimolandoci a dare sempre il meglio di noi. Io non potevo, per lealtà e per rispetto, aprire un nuovo discorso, un nuovo gruppo, un nuovo spazio, senza prima rendere conto a voi di questi fatti.
Gli altri, ovviamente, sono liberi di fare ciò che vogliono e lo hanno fatto.

Sono sempre stata molto esigente con i miei compagni per quanto riguarda la creazione di un rapporto e di un dialogo con il pubblico, l’ho sempre considerato fondamentale.
In virtù di questo dialogo ho ritenuto importante scrivere questa lettera e cercare di darvi un’idea della situazione. Altrimenti, per fare un esempio pratico, sembra di aver fatto l’amore a lungo con qualcuno e di andare via senza nemmeno salutare. Altrimenti, noi attori di Muré, abbiamo parlato e continuiamo a parlare tanto di relazione, di incontro, di memoria, ma stiamo calpestando questo rapporto, stiamo ignorando la memoria di quanto questo gruppo ha creato, ci stiamo riempiendo la bocca di dichiarazioni e di parole che non corrispondo più ai fatti. Altrimenti, stiamo inviando al pubblico un segnale contradditorio: mentre questa barchetta sta naufragando in solitudine, dalla riva, ne avvistiamo il relitto. Chi faceva parte di quell’equipaggio attende in silenzio che la barca si areni sulla spiaggia, nel frattempo, dalla terra ferma, qualcuno già ne inaugura una nuova e festeggia, ingorando chi, invece, si sta chiedendo a chi appartenga quel legno vecchio e come sia arrivato lì in quello stato. Io, pur essendo scesa da quell’imbarcazione, la vedo, la riconosco e vado a recuperarla per portarla a riposare, per ringraziarla di avermi portato vicino e lontano da casa.
Anticamente esistevano rituali, che ancora oggi nel nostro Paese si rievocano, dove per dare vita al nuovo si bruciava il vecchio. Sono d’accordo, è nella natura ciclica delle cose. Non sono più d’accordo quando il vecchio non ha tempo di lasciare un messaggio al nuovo che ci consenta di chiudere, finalmente, il ciclo.
Mi sembra onesto perciò, da parte mia, dirvi la verità e cioè che caliamo il sipario (tanto per usare un’immagine “teatrale”, ma ben sapete che di sipari non ne abbiamo mai avuti, né voluti).

Il viaggio con Muré Teatro mi lascia moltissimo: mi ha permesso di crearmi una professione, mi ha fatto comprendere quanto questo lavoro sia difficile, soprattutto per una ragazza che diventa donna anche attraverso l’arte; mi ha permesso di iniziare la ricerca sulla narrazione, sul teatro popolare, sul teatro in natura e quello itinerante, mi ha dato la possibilità di incontrare persone meravigliose; mi ha fatto sentire il peso della scelta di un teatro non fine a se stesso ma di un teatro utile agli altri; mi ha permesso di far confluire i miei studi universitari in un contesto dove praticarli e di iniziare la strada della regia. Tanto altro mi ha dato Muré Teatro, ma quello che per sempre mi porterò nel cuore non è la rabbia, la delusione o il rimpianto, ma la bellezza di un gruppo di persone che si uniscono per fare teatro insieme. Soprattutto, mi restano il vostro calore, la vostra commozione, i vostri sorrisi, la vostra partecipazione, che valgono immensamente tanto per me.
Desidero ringraziarvi di tutto questo e vi invito a non provare amarezza o dispiacere perché sono certa che ciò che, nel nostro piccolo e con tutti i nostri limiti, abbiamo tentato di fare, lo abbiamo fatto sempre al massimo delle nostre possibilità e continueremo a farlo anche se non si chiamerà più Muré Teatro.
Desidero, infine, ringraziare i miei compagni per i quali provo un amore che mai potrà essere cancellato, lo stesso sentimento che adesso mi porta ad allontanarmi per non restarne priogionieri. Chissà che, con il tempo, non imparerò a capire come restarvi vicino. Ringrazio gli amici e i collaboratori che hanno condiviso e creduto in noi e nel nostro teatro, sostenendolo in ogni modo. Senza di voi, molto non avremmo potuto realizzare.

Concludo fornendo qualche indicazione per quanto riguarda i nostri canali virtuali come il nostro indirizzo mail, la nostra pagina FB e sito internet,  che resteranno aperti ancora per un po' per accogliere richieste inerenti i nostri spettacoli “Maja” e “Lupo In-Canto”  che conservano ancora tutti i riferimenti e i contatti che portano a Muré, in attesa di effetture modifiche e per consentirci, piano piano, di salvare tutti i contenuti digitali nel nostro archivio. Io e Marcello abbiamo infatti deciso di creare un archivio di Muré Teatro, al quale personalmente tengo moltissimo e considero un ulteriore atto di responsabilità verso la nostra memoria collettiva, visto che molte sono le voci, i suoni, le storie, i canti, che abbiamo registrato in questi 6 anni, a partire dalla ricerca con i pescatori di Pescara per lo spettacolo “Tento-Tanto, storie di vite nella città” fino ad arrivare alle voci di donne raccolte con “Maja”. Un archivio che sarà consultabile, in futuro, rivolgendosi sia a me che a Marcello. Di questo vi terremo, in qualche modo, informati.

“Finita una cosa, ne comincia un’altra” diceva Zi Antonio, narratore contadino, racchiudendo in poche parole il senso della ciclicità e della continuità della cultura contadina.
Insomma, per ogni cosa che finisce non tutto muore e bisogna andare avanti restare al mondo con disponibilità e ascolto.
Vi ringrazio di cuore sperando sempre in un arrivederci a presto. Un caro abbraccio e un grido di battaglia, sempre quello: VIVA IL TEATRO!



Francesca Camilla D’Amico

martedì 6 marzo 2018

Fere lu vente - soffia il vento (dei racconti)


Condivido qui le riflessioni di Jasmine La Morgia sulla memoria collettiva e sul progetto dei "Racconti fatti in casa" che lei stessa ha ospitato nella taverna di famiglia a Lanciano il 6 gennaio 2018 e di cui riporta generosamente la sua testimonianza.
Buona lettura e...buon vento!

«Fere lu vente».

In Abruzzo il vento non soffia, fere: perché non è solo un flusso d’aria, ma un vero e proprio agente che trascina cose ed eventi. E non per caso questa espressione così forte arriva dritta dal potente verbo latino irregolare dai molti significati, che ben si addice al vento che tutto può attraversare.

Così come il vento, fere anche il racconto delle storie d’Abruzzo che Francesca Camilla D’Amico ha pensato di proporre nelle case, nelle scuole e nelle piazze: nel momento in cui inizia a raccontare è come se si aprisse il vaso di Pandora (un’altra immagine del vento!) che ci restituisce la memoria collettiva che ha raccolto con paziente lavoro dalla tradizione orale.

Così scopriamo perché chi nasce a “Natale è un po’ mago o un po’ strega”, perché “Gesù perdona, ma San Giovanni no”, come gli animali - in una reinterpretazione della fattoria orwelliana – giudichino le cose del mondo e come anche l’umile vermicello si possa trasformare in una lucciola, lucciola cui è dedicata una delle più belle canzoni abruzzesi.

D’altra parte è sempre Orwell che diceva che chi controlla il passato, controlla il presente ed quindi il futuro. Così il recupero dei racconti degli anziani, la ricerca delle storie che reinterpretano mito, le lettere degli emigranti e delle loro mogli rimaste al paese ci restituiscono un mondo dimenticato per il solo fatto che non vediamo più.

La perdita della memoria collettiva caratterizza il nostro tempo e ci rende orfani, privi di quegli strumenti che, grazie alla conoscenza del nostro passato, ci renderebbero più certi delle motivazioni del presente di fronte ai grandi temi della globalizzazione.

Francesca invece è andata alla ricerca delle voci e dei testimoni e, grazie al suo racconto, possiamo ricucire così la trama slabbrata dei lembi del passato con quelli del presente. E lo fa attraverso i suoi spettacoli teatrali (Maja, storie di donne dalla Majella al Gran Sasso è un memorabile affresco della condizione delle donne abruzzesi fra ottocento e novecento) ma anche grazie ai "Racconti fatti in casa" dove allo spazio teatrale si sostituisce la casa e gli spettatori non sono più tali, ma diventano interlocutori e componenti stessi del racconto. 

Basta un soggiorno, una sala o una taverna e, grazie alla narrazione di Francesca, i suoi ospiti hanno la possibilità di condividere ricordi e storie e si ritrovano nella memoria collettiva.
Ho avuto l’opportunità ed il piacere di ospitare Francesca ed i suoi Racconti fatti in casa nella taverna di famiglia a Lanciano e, specie per me che vivo lontano dall’Abruzzo da tanto tempo, è stata un’esperienza bellissima. Provate! Perché quando racconto ed ascolto si fondono insieme diventano parte della memoria condivisa e del nostro patrimonio immateriale.

Jasmine La Morgia
"Racconti fatti in casa", Lanciano (CH), 6 gennaio 2018 

martedì 29 agosto 2017

Oliviero, lo sguardo e la città futura

Oliviero, lo sguardo e la città futura.

(Continua da “Lasagne e montagne”)
Poi sono cresciuta e la casa di Farindola la vedevo sempre meno. L’adolescenza in città mi chiamava ad altri divertimenti, ma non ho mai dimenticato quella casa. Il richiamo del mare era più forte in quell’età, mi piaceva passare il tempo sulla spiaggia, sentire il sale sulla pelle e c’erano i primi amori, il motorino, la curiosità e la voglia di vivere, di conoscere. La curiosità, la voglia di vivere, di conoscere. Curiosità, conoscere, vivere.
Mi sono guardata intorno e, a poco a poco, ho capito che la mia piccola città non rispondeva più a queste mie necessità. Mi sentivo triste nella piccola città, non riuscivo a divertirmi come si divertivano gli altri. Tutto quello che avevo intono non rispondeva più a quei tre desideri.
Era arrivato il momento di andare.
Allora ho pensato:  “ci vuole una città più grande!”
E via per l’università, in una grande città con la metropolitana: “che indipendenza! Guardate come salgo e scendo da questa metropolitana! Dalla linea B, alla linea A senza mai salire in superficie, dalla linea A alla linea B senza rifare il biglietto!” e infatti mi becco una multa da grande città, senza se e senza ma. L’entusiasmo per la metropolitana è durato pochissimo, infatti sono diventata una camminatrice urbana, chilometri senza mai prender e un mezzo pubblico. La sera, tornavo a casa sfinita e puzzolente di smog, sudore e solitudine. Nella grande città, c’erano dei parchi, ma non mi piacevano quanto quello delle "paperelle" nella piccola città. Nella grande città c’era l’università che soddisfaceva la mia grande curiosità e il desiderio di conoscenza aprendo altri bisogni ma, nella grande città, non c’era il mare, tantomeno i rospi, la prugna regina e i granchi ma non c’era  nemmeno il teatro che cercavo.
Dopo qualche anno, ho detto arrivederci alla grande città, che ho continuato a frequentare solo per dare gli esami e laurearmi. Ho preso l’autobus dell’ossigeno, salutato gli amici e rivisto l’Abruzzo con lo sguardo di chi torna da un lungo viaggio, anche se “casa mia” era davvero a un paio d’ore d’auto e la vedevo spesso, però la grande città mi aveva insegnato a guardare le cose da lontano.
Perché per vedere le cose ci vuole la distanza. Me lo dice pure Oliviero, un pescatore che esiste nella mia immaginazione e mi racconta questa storia che parla di montagne, di sogni, di una città futura.
Questa storia, che mi è nata in un paese di nome Paglieta, la raccontavo in uno spettacolo che si chiamava  “Tento Tanto – storie di vite nella città”[1] e faceva più o meno così:

Quando ero piccola mio padre mi diceva che la Bella Addormentata[2], un giorno, si sarebbe risvegliata. A me questa cosa faceva paura! Pensavo:  “si, ma quando si sveglierà che farà? Ci abbraccerà? Ci schiaccerà? Ci soffierà via?”
  E io quando torno da Roma spesso vado in cerca del mare e me ne vado sopra all’ultimo scoglio sul molo di Pescara – oh! Quell’ è lu scoja mì eh![3] – e mi metto fronte a lu mare e spalle alla città. Poi, un giorno, so decise[4] di cambiare punto di vista e mi so messe spalle a lu mare e fronte alla città. E chi tti so vishte[5]? La Bella Addormentata! La Bella Addormentata che è il profilo del Gran Sasso disteso che dorme. “Lascele perde a chillì, ca quelle è na brutta scostumate![6]”. Chi è? Oliviero! Nu pescatore vecchio che sta sembre assettate[7]  allu scoje arreta a quella mì! Oh, quello non ce la fa a stare lontano dal mare:
 “Quelle, quand’ere ggiovene, m’avè fattè annammurà. M’avevene dette che se ci saleve sopre e ji deve nu bbace, quelle diventava una bella ragazze. Allore nu jorne so cchiappate e ci so salite, ma quande so arrivate sopre, mi so guardate attorne…ngi steve cchiù. Allore me so rrajate e so ‘rturnate arrete e quande me so ggirate….steve a elle! Allore so capite ca le cose di vede bbone da lundane, nghe la distanza.[8]” Allore so penzate d’addummannà[9] a Oliviero, addò si trova la città futura: “Signorì, ij lu monne li so ggirate tutte, pe mare e pe monde, ma alla fine a ecche so ‘rturnate, alla casa mì. Mo, ssa città future che jete cerchenne, non è che non esiste. La città futura esiste, è sole ca nin si vede[10]…”.

Tutta la natura era di nuovo lì. Tra il mare e la montagna. Quella montagne che osservavo da lontano, separate da strati di case e terra. La immaginavo nei tempi i cui non esisteva la città, i palazzi e i ponti moderni. Mi sforzavo, e lo faccio ancora oggi, di vedere quelle montagne, la Majella e il Gran Sasso, da chi, secoli fa, le vedeva approdando sulla costa. Una costa luminosa doveva essere, dove nei giorni senza foschia, quelle montagne dovevano apparire vicinissime.
Continuo a credere che Oliviero avesse ragione, la città futura esiste ma non si vede.
Affinché
la città futura emerga, io credo che bisogna trovare quei “fili invisibili” di cui parla nella sua poesia  Antonio Catalano dove “un filo ti lega a un sogno/ Per farti legare a un altro bisogno”. Allora chiudo gli occhi e cerco di capire “Quei fili invisibili nei giorni a venire”.

Sono passati cinque anni da quello spettacolo in cui raccontavo questa storia di Oliviero e La Bella Addormentata, che è una storia che parla dello sguardo. Io non ho smesso mai di cercare la città futura, quel desiderio si è trasformato in qualcos’altro che ha dato vita alla ricerca non solo della città ma anche del paese futuro. I paesi hanno innaffiato il mio sguardo sulle cose,  seminato lo sguardo sulle case, nelle fonti, nelle chiese antiche. I paesi scoprivano il mio bisogno di lentezza. Attraversandoli, fioriscono storie intrecciate alla Storia, per chi le sa cogliere. Da qui, dai paesi, il mio concetto di natura cambia notevolmente, spalancando la porta che porta alle colline e alle montagne, allo sguardo concreto sulle cose e, allo stesso tempo, uno sguardo visionario, libero, arioso, che spera, che costruisce.
Che spera, che costruisce.
E tutta la natura, per me, era lì…

(…)
Di filo in filo legati da infinito legame
Stanno le zebre i conigli e le rane
Un filo dal naso al cielo
Per arrivare allo zucchero a velo

Filo per filo segno per segno
Come un grande enorme disegno
Dove io sono disegnato in basso
Proprio come un piccolo piccolo sasso

Come fa un ragno con i suoi fili leggeri
Ad essere legato alle ali degli sparvieri
Come l’emigrante al suo paese nativo
Ha il cuore legato ad un antico ulivo

Filo per filo segno per segno
Come un grande enorme disegno
Dove io sono disegnato in basso
Proprio come un piccolo piccolo sasso

(Qui sopra la seconda parte della poesia di Antonio Catalano, la prima parte è pubblicata nel precedente racconto su Teatro dell’Aia in “Lasagne e montagne”. La terza parte nella prossima pubblicazione.)


…Continua…

Foto: Salvatore Costantini. Spettacolo teatrale "Maja, storie di donne dalla Majella al Gran Sasso". Replica del 17/8/2017 a Roccacaramanico, all'interno della rassegna "Teatro nel Borgo" a cura di Muré Teatro.


[1] “Tento Tanto – Storie di vite nela città”. Spettacolo teatrale di Muré Teatro. Debutto: Pescara, Spazio Matta, 5 gennaio 2013. Ulteriori info su www.mureteatro.it alla sezione Spettacoli.
[2] Da Pescara e dintorni, è possibile osservare come il massiccio del Gran Sasso somigli ad una donna distesa che dorme
[3] Quello è il mio scoglio eh!
[4] Ho deciso
[5] E cosa ho visto?
[6] Lasciala perdere quella lì, che quella è una brutta scostumata!
[7] Seduto
[8] In dialetto pescarese Oliviero racconta chequando era giovane gli avevano detto che se fosse salito sopra la Bella Addormentata, quindi sopra al Gran Sasso, e le avesse dato un bacio, la montagna di sarebbe trasformata in una donna in carne e ossa. Quindi, Oliviero parte per questa missione ma, arrivato sulla montagna, non scorge più il profilo che vedeva dal mare. Arrabbiato torna a casa e, quando si volta, la ritrova lì. Allora comprende che per essere viste, le cose, hanno bisogno di una certa distanza.
[9] Ho pensato di chiedere
[10] Signorina, io il mondo l’ho girato tutto, per mare e per monti. Ma alla fine sono tornato qui a casa mia. Adesso, questa città futura di cui andate in cerca, non è che non esista. La città futura esiste, è solo che non si vede.

domenica 29 gennaio 2017

Lasagne e montagne




“Io so il filo che mi lega alle lasagne ma non conosco il filo che mi lega alle montagne



Inizia così una bellissima poesia di Antonio Catalano. Mi fa venire in mente quanto sappiamo dei nostri bisogni materiali quanto poco sappiamo della natura. Di quanto ci sentiamo grandi e potenti e di quanto, invece, siamo piccoli. Piccoli come un sassolino, in basso, in un angolo, dietro un vastissimo panorama. Io mi sento sassolino e non è male, vi dirò. Ne sono cosciente e ne sono felice. Non posso fingermi gigante, perchè non lo sono. Ma non mi sento triste per questo, perchè so che tutto parte anche solo da un sassolino, da un semino, da una piccola goccia. Il guaio è quando la goccia si crede mare, quando il sassolino montagna, quando il semino foresta.

Sono cresciuta in città, tutta la natura per me è stata sempre il mare, visto dalla spiaggia, dal bagnasciuga. Pizzetta, ghiacciolo e secchiello. Un mare di telline, di granchi, spalle cotte dal sole. Tutta la natura era lì, per me. Quando non era alla pineta, con la sabbia e la terra, il laghetto delle papere, i cigni, le anatre. Tutta la natura era lì. Poi è arrivata la campagna, la casa dei miei genitori vicino Penne, nell'ormai tristemente nota Farindola. Un paese sconosciuto, prima della valanga, un paese come ce ne sono tantissimi in Abruzzo, una miriade di paesi. Una costellazione di paesi, piccoli, belli, brutti, desolati, albergati, termali, dormitori, appollaiati, infossati, illuminati, incastonati, umili, spogliati, nascosti, ignorati, ricostruiti, affaticati, demoliti, trasparenti, ariosi, ventosi, antichi, remoti, tramutati, terremotati, imbruttiti, resistenti. La campagna, la collina, il fiume con i girini, le rane, i serpentelli.

Coltello e bastone, calci al pallone, che poi cadeva nel fiume ed era tutta un'avventura andarlo a recuperare, certe volte il fiume se lo portava via. E penso che lo facevamo un po' apposta, io e mio cugino, a far andare il pallone nel fiume, per crearci l'avventura di andarlo a recuperare. Ci inzuppavamo, i miei genitori non mi sgridavano, mi lasciavano fare, anche quando mi cacciavo in piccoli guai. E poi c'era l'orto, pomodori “sammarzano”, pomodori pachino, pomodori a pera, pomodori cuore di bue. Li chiamavo per nome. Mio padre faceva il buco con “lu pire” e io facevo scendere il semino nel buco nella terra e lo ricoprivamo. Poi usciva la piantina, mettevamo le canne, osservavo mio padre che attaccava la piantina alla canna. Gli facevo tante domande e cantavo per tenergli compagnia. Le canzoni me le inventavo io... Povero papà! Le lumache, la loro tana, le orme del cinghiale, le noci colpite con un lungo bastone, facevamo a gara a chi ne raccoglieva di più. Le amarene, diverse dalle ciliegie. Le ciliegie sono più grandi e dolci, le amarene sono piccole, scure e amare. Mio padre che prova a fare un innesto. Il pero selvatico di nome “Andy” su cui mi arrampicavo. Il mio concetto di natura iniziava notevolmente ad allargarsi. Il fango, i rospi che se li tocchi ti schizzano un liquido che ti trasforma in un rospo pure a te, vassoi di pane e pomodoro e basilico divorati sotto il cachi, il cielo stellato. Ma quante stelle ci sono? Io tutte quelle stelle le ho viste tutte lì per la prima volta. Il suono del fiume che, ora che ci penso, è un ruscello, ma per me era un fiume. Quell'anno che il fiume s'ingrossa e fa paura e arriva al livello dell'argine e vicino al giardino. La prugna regina, dolcissima. Le fave e i cetrioli. La volpe, le pecore, le galline, i pulcini. Il maiale. La macchina per fare le salsicce. Scopro che la pellicina intorno alle salsicce, che mia madre mi dice sempre di togliere e invece a me piace tanto mangiare, in realtà sono le budella del maiale. Lunghissime. La casa di Nazareno e Carina, due contadini meravigliosi, gentilissimi. Nazareno col naso rosso, agilissimo, sale sulle piante, ci offre sempre il vino e l'allegria. Carina, accogliente, sorridente, mani d'oro, mai di fata, cuore di mamma. Un bambino con un caschetto che suona uno strumento strano, si chiama organetto, la sua voce mi ritorna nei ricordi, cantava: la gioventù ca nin murisse maje. Manuel si chiamava quel bambino e oggi fa il musicista. La natura era tutta lì e si aggiungeva un'umanità nuova, sconosciuta in città. Quando tornavo in città mi sembrava di essere stata in un universo parallelo. La quercia grossa. Una quercia centenaria, enorme, pacifica e meravigliosa dove ho sognato di vivere e arrampicarmi, e lo sogno ancora. L'unico posto dove prendeva il telefono, sotto la quercia. Poi per fortuna la quercia decise che manco lì doveva prendere il telefono e quindi da casa, per telefonare, bisogna fare più di un chilometro. Il ramarro! C'è ma non si vede e quando lo scopri...papà ho visto un mostro verde enorme stranissimo che mi guardava!! Papà ho visto una strana farfalla con quattro ali e due teste! E papà: ne sono due. E io: come due? Papà: stanno facendo l'amore. E io: che schifoooo!

E tutta la natura era lì-

E io sono solo un piccolo piccolo sasso.



….fine prima parte!




“Io so il filo che mi lega alle lasagne


ma non conosco il filo che mi lega alle montagne


un lungo filo teso tra montagna e collina


per appendere panni bianchi e carta velina





Filo per filo segno per segno


come un grande enorme disegno


dove io sono disegnato là in basso


proprio come un piccolo piccolo sasso





Un filo dal fondo del mare abissale


lungo fino a un pianeta ovale


giusto adatto per appendere pensieri


quelli gialli antichi quelli di ieri





filo per filo segno per segno


come un grande enorme disegno


dove io sono disegnato in là in basso


proprio come un piccolo piccolo sasso...”



(…..continua.....)



(Antonio Catalano)

venerdì 4 novembre 2016

Quando parlarono le montagne...

Quando parlarono le montagne c'erano solo due donne che poterono ascoltarle.

-Zà Rò, ma tu chi pinze? Ca pure all'atru monne ci stà le mundagne?

-Gnorsì. Ci sta una mondagna alte, ma nghe tre passe arrive alla cime. Se ti mitte 'n punda di pite pu tuccà le stelle. Li si ca li stelle pizziche?



L'autunno è una delle stagioni più belle da vivere in montagna. Cammino nella faggeta e guardo i posti dove in estate cresceranno le fragole e i lamponi, un tappeto spesso di foglie attutisce ogni passo. La luce arriva da ogni parte, dal cielo azzurro cristallino, dalle foglie rosse, arancioni, gialle, marroni, ce ne sono alcune che tendono al viola. Incontro un lupo, attraversa il sentiero a qualche centinaio di metri da me. Poco più avanti incontro due caprioli. Non c'è un filo di vento e cammino da sola, per questo gli animali si accorgono meno di me ed è più facile vederli. Io qui sono ospite, osservo, faccio qualche foto, prendo appunti, scelgo i posti dove, il giorno seguente, racconterò delle storie a persone che le ascolteranno. Cerco la compagnia degli alberi, delle rocce, di un piccolo ruscello.

Alcuni anni fa, mi trovavo sul Monte Camicia, camminavo per la prima volta in montagna. Mi passò per la mente questo pensiero: solo al di sopra dei mille metri le cose hanno senso. Non ne potevo più dei parcheggi, dei palazzi, dei supermercati, delle persone che non ascoltano, di pagare un teatro per fare degli spettacoli pur non avendo soldi, di non avere un posto dove fare le prove, di dover recintare il teatro. Non so esattamente quale sia stato il collegamento tra il teatro e quello che stavo facendo vicino alle stelle alpine appenniniche.

Racconti nella faggeta di Lama Bianca
30/11/2016.
Oggi penso che raccontare storie nella natura, andando incontro alle persone, ai luoghi ai quali appartengono, sia un'evoluzione e, al tempo stesso, la cosa più vecchia del mondo. Di certo non ho inventato nulla e non volevo inventare nulla. Forse volevo un modo per uscire dalla solitudine, incontrandomi, incontrando gli altri, perchè “è sempre l'altro a dirci chi siamo”, come dice Lucio di Castelfrentano.



Due contadine camminavano in montagna, andavano per legna secca, nella faggeta di Lama Bianca: Za Rose, una donna anziana da tutti chiamata “La fate” perchè brava in diversi mestieri e, soprattutto, per la sua grande capacità di ascoltare il creato parlante. Si perchè, secondo Za Rosa, il creato parla. E come darle torto? Tutto parla, solo che non tutti ascoltano. L'altra donna è Annafelice, da tutti soprannominata “la mula”.

Arrivarono a Fonte della Chiesa, si fermarono un attimo per bere un po' d'acqua al fontanile quando, improvvisamente, Za Rosa si fermò e disse:

-Zitte, zitteee!

-Chi è?

-Nin li sinde?

-Avesse sindì caccose?

-Li mundagne! Stann'a parlà.

-ommadonnamije! Chi dicene Za Rò?

-Ha ditte na parole!

-Maramè, c'ha ditte?

-Ecco,ecco! Lo sento! Lu Gran Sasse l'ha dett'a lu Sirente e isse l'ha ditt a lu Morrone, lu Morrone le tè dice a nu che stame a ecche sopra alla Majelle.

-ji n'so ntese nijende. Me jamme, si po' sapè c'ha ditte ssu Sasse? Tu che pirle nghe le mundagne!

-Ha ditt: Vasanicole.1

-Vasanicole? E che j'avassame arisponne nu? Pimmadore?

-Mica teneme arisponne nu! Nu che c'entrame? Quess'è cose tra mundagne. Zitte, zitteeee!

-Cose checcose? Ommadonnamije mi fi mbaurì!

-Si 'ndese?

-Nso 'ndese nijende!

-La Majelle j'ha risposchte...

-Pimmadore?

-la Majelle ha risposte...

-Me jammè Za Rò ch'ha ditte? Mi fa sta pure a venì fame a forze di parlà di pimmadore e vasanicole...

-Ha ditte: mentuccia.

-Mentucce?

-Mentucce.

-Ah mo vulesse proprie sapè che j'aresponne chill!

-Zitte! Parle lu mare!

-Ojemamme!!! Che dice?

-Purtsinnele2

-Ahmamme!!

Le due donne stettero un poco in silenzio. Annafelice restò in ascolto, ma a un certo punto non ne potè più:

-E mo? Che dice?

-Nijende.

-Chicoooocce!!!3

-Ma che te strille?

-Eh, vuleve dice na parole pure ji.

Ancora silenzio di ascolto, di nuovo Annafelice:
-Ha ditt' caccose? Pare che so 'ndese caccose!

-Jame.

-Pecchè jame? videme se parlene angore...

-None, chissà quand'arrive la risposhte! Le mundagne ci mettene l'inne pe parlà. Dicene na parole ogne vende, trent'anne!

-Eh scine, bonanotte, me ne so ite all'atru monne!

E si rimisero in cammino, con le fascine di legna sulle spalle.


-Za Rò, ma tu chi pinze, ca pure all'atru monne ci sta le mundagne?

-Gnorsì. E pure l'addore de la vasanicole.

1Basilico

2Prezzemolo.

3Zucchine.

Veduta del massiccio del Gran Sasso da Fonte delle Chiesa, ai piedi della Majella. Sulla sinistra parte del Morrone.