martedì 29 agosto 2017

Oliviero, lo sguardo e la città futura

Oliviero, lo sguardo e la città futura.

(Continua da “Lasagne e montagne”)
Poi sono cresciuta e la casa di Farindola la vedevo sempre meno. L’adolescenza in città mi chiamava ad altri divertimenti, ma non ho mai dimenticato quella casa. Il richiamo del mare era più forte in quell’età, mi piaceva passare il tempo sulla spiaggia, sentire il sale sulla pelle e c’erano i primi amori, il motorino, la curiosità e la voglia di vivere, di conoscere. La curiosità, la voglia di vivere, di conoscere. Curiosità, conoscere, vivere.
Mi sono guardata intorno e, a poco a poco, ho capito che la mia piccola città non rispondeva più a queste mie necessità. Mi sentivo triste nella piccola città, non riuscivo a divertirmi come si divertivano gli altri. Tutto quello che avevo intono non rispondeva più a quei tre desideri.
Era arrivato il momento di andare.
Allora ho pensato:  “ci vuole una città più grande!”
E via per l’università, in una grande città con la metropolitana: “che indipendenza! Guardate come salgo e scendo da questa metropolitana! Dalla linea B, alla linea A senza mai salire in superficie, dalla linea A alla linea B senza rifare il biglietto!” e infatti mi becco una multa da grande città, senza se e senza ma. L’entusiasmo per la metropolitana è durato pochissimo, infatti sono diventata una camminatrice urbana, chilometri senza mai prender e un mezzo pubblico. La sera, tornavo a casa sfinita e puzzolente di smog, sudore e solitudine. Nella grande città, c’erano dei parchi, ma non mi piacevano quanto quello delle "paperelle" nella piccola città. Nella grande città c’era l’università che soddisfaceva la mia grande curiosità e il desiderio di conoscenza aprendo altri bisogni ma, nella grande città, non c’era il mare, tantomeno i rospi, la prugna regina e i granchi ma non c’era  nemmeno il teatro che cercavo.
Dopo qualche anno, ho detto arrivederci alla grande città, che ho continuato a frequentare solo per dare gli esami e laurearmi. Ho preso l’autobus dell’ossigeno, salutato gli amici e rivisto l’Abruzzo con lo sguardo di chi torna da un lungo viaggio, anche se “casa mia” era davvero a un paio d’ore d’auto e la vedevo spesso, però la grande città mi aveva insegnato a guardare le cose da lontano.
Perché per vedere le cose ci vuole la distanza. Me lo dice pure Oliviero, un pescatore che esiste nella mia immaginazione e mi racconta questa storia che parla di montagne, di sogni, di una città futura.
Questa storia, che mi è nata in un paese di nome Paglieta, la raccontavo in uno spettacolo che si chiamava  “Tento Tanto – storie di vite nella città”[1] e faceva più o meno così:

Quando ero piccola mio padre mi diceva che la Bella Addormentata[2], un giorno, si sarebbe risvegliata. A me questa cosa faceva paura! Pensavo:  “si, ma quando si sveglierà che farà? Ci abbraccerà? Ci schiaccerà? Ci soffierà via?”
  E io quando torno da Roma spesso vado in cerca del mare e me ne vado sopra all’ultimo scoglio sul molo di Pescara – oh! Quell’ è lu scoja mì eh![3] – e mi metto fronte a lu mare e spalle alla città. Poi, un giorno, so decise[4] di cambiare punto di vista e mi so messe spalle a lu mare e fronte alla città. E chi tti so vishte[5]? La Bella Addormentata! La Bella Addormentata che è il profilo del Gran Sasso disteso che dorme. “Lascele perde a chillì, ca quelle è na brutta scostumate![6]”. Chi è? Oliviero! Nu pescatore vecchio che sta sembre assettate[7]  allu scoje arreta a quella mì! Oh, quello non ce la fa a stare lontano dal mare:
 “Quelle, quand’ere ggiovene, m’avè fattè annammurà. M’avevene dette che se ci saleve sopre e ji deve nu bbace, quelle diventava una bella ragazze. Allore nu jorne so cchiappate e ci so salite, ma quande so arrivate sopre, mi so guardate attorne…ngi steve cchiù. Allore me so rrajate e so ‘rturnate arrete e quande me so ggirate….steve a elle! Allore so capite ca le cose di vede bbone da lundane, nghe la distanza.[8]” Allore so penzate d’addummannà[9] a Oliviero, addò si trova la città futura: “Signorì, ij lu monne li so ggirate tutte, pe mare e pe monde, ma alla fine a ecche so ‘rturnate, alla casa mì. Mo, ssa città future che jete cerchenne, non è che non esiste. La città futura esiste, è sole ca nin si vede[10]…”.

Tutta la natura era di nuovo lì. Tra il mare e la montagna. Quella montagne che osservavo da lontano, separate da strati di case e terra. La immaginavo nei tempi i cui non esisteva la città, i palazzi e i ponti moderni. Mi sforzavo, e lo faccio ancora oggi, di vedere quelle montagne, la Majella e il Gran Sasso, da chi, secoli fa, le vedeva approdando sulla costa. Una costa luminosa doveva essere, dove nei giorni senza foschia, quelle montagne dovevano apparire vicinissime.
Continuo a credere che Oliviero avesse ragione, la città futura esiste ma non si vede.
Affinché
la città futura emerga, io credo che bisogna trovare quei “fili invisibili” di cui parla nella sua poesia  Antonio Catalano dove “un filo ti lega a un sogno/ Per farti legare a un altro bisogno”. Allora chiudo gli occhi e cerco di capire “Quei fili invisibili nei giorni a venire”.

Sono passati cinque anni da quello spettacolo in cui raccontavo questa storia di Oliviero e La Bella Addormentata, che è una storia che parla dello sguardo. Io non ho smesso mai di cercare la città futura, quel desiderio si è trasformato in qualcos’altro che ha dato vita alla ricerca non solo della città ma anche del paese futuro. I paesi hanno innaffiato il mio sguardo sulle cose,  seminato lo sguardo sulle case, nelle fonti, nelle chiese antiche. I paesi scoprivano il mio bisogno di lentezza. Attraversandoli, fioriscono storie intrecciate alla Storia, per chi le sa cogliere. Da qui, dai paesi, il mio concetto di natura cambia notevolmente, spalancando la porta che porta alle colline e alle montagne, allo sguardo concreto sulle cose e, allo stesso tempo, uno sguardo visionario, libero, arioso, che spera, che costruisce.
Che spera, che costruisce.
E tutta la natura, per me, era lì…

(…)
Di filo in filo legati da infinito legame
Stanno le zebre i conigli e le rane
Un filo dal naso al cielo
Per arrivare allo zucchero a velo

Filo per filo segno per segno
Come un grande enorme disegno
Dove io sono disegnato in basso
Proprio come un piccolo piccolo sasso

Come fa un ragno con i suoi fili leggeri
Ad essere legato alle ali degli sparvieri
Come l’emigrante al suo paese nativo
Ha il cuore legato ad un antico ulivo

Filo per filo segno per segno
Come un grande enorme disegno
Dove io sono disegnato in basso
Proprio come un piccolo piccolo sasso

(Qui sopra la seconda parte della poesia di Antonio Catalano, la prima parte è pubblicata nel precedente racconto su Teatro dell’Aia in “Lasagne e montagne”. La terza parte nella prossima pubblicazione.)


…Continua…

Foto: Salvatore Costantini. Spettacolo teatrale "Maja, storie di donne dalla Majella al Gran Sasso". Replica del 17/8/2017 a Roccacaramanico, all'interno della rassegna "Teatro nel Borgo" a cura di Muré Teatro.


[1] “Tento Tanto – Storie di vite nela città”. Spettacolo teatrale di Muré Teatro. Debutto: Pescara, Spazio Matta, 5 gennaio 2013. Ulteriori info su www.mureteatro.it alla sezione Spettacoli.
[2] Da Pescara e dintorni, è possibile osservare come il massiccio del Gran Sasso somigli ad una donna distesa che dorme
[3] Quello è il mio scoglio eh!
[4] Ho deciso
[5] E cosa ho visto?
[6] Lasciala perdere quella lì, che quella è una brutta scostumata!
[7] Seduto
[8] In dialetto pescarese Oliviero racconta chequando era giovane gli avevano detto che se fosse salito sopra la Bella Addormentata, quindi sopra al Gran Sasso, e le avesse dato un bacio, la montagna di sarebbe trasformata in una donna in carne e ossa. Quindi, Oliviero parte per questa missione ma, arrivato sulla montagna, non scorge più il profilo che vedeva dal mare. Arrabbiato torna a casa e, quando si volta, la ritrova lì. Allora comprende che per essere viste, le cose, hanno bisogno di una certa distanza.
[9] Ho pensato di chiedere
[10] Signorina, io il mondo l’ho girato tutto, per mare e per monti. Ma alla fine sono tornato qui a casa mia. Adesso, questa città futura di cui andate in cerca, non è che non esista. La città futura esiste, è solo che non si vede.

domenica 29 gennaio 2017

Lasagne e montagne




“Io so il filo che mi lega alle lasagne ma non conosco il filo che mi lega alle montagne



Inizia così una bellissima poesia di Antonio Catalano. Mi fa venire in mente quanto sappiamo dei nostri bisogni materiali quanto poco sappiamo della natura. Di quanto ci sentiamo grandi e potenti e di quanto, invece, siamo piccoli. Piccoli come un sassolino, in basso, in un angolo, dietro un vastissimo panorama. Io mi sento sassolino e non è male, vi dirò. Ne sono cosciente e ne sono felice. Non posso fingermi gigante, perchè non lo sono. Ma non mi sento triste per questo, perchè so che tutto parte anche solo da un sassolino, da un semino, da una piccola goccia. Il guaio è quando la goccia si crede mare, quando il sassolino montagna, quando il semino foresta.

Sono cresciuta in città, tutta la natura per me è stata sempre il mare, visto dalla spiaggia, dal bagnasciuga. Pizzetta, ghiacciolo e secchiello. Un mare di telline, di granchi, spalle cotte dal sole. Tutta la natura era lì, per me. Quando non era alla pineta, con la sabbia e la terra, il laghetto delle papere, i cigni, le anatre. Tutta la natura era lì. Poi è arrivata la campagna, la casa dei miei genitori vicino Penne, nell'ormai tristemente nota Farindola. Un paese sconosciuto, prima della valanga, un paese come ce ne sono tantissimi in Abruzzo, una miriade di paesi. Una costellazione di paesi, piccoli, belli, brutti, desolati, albergati, termali, dormitori, appollaiati, infossati, illuminati, incastonati, umili, spogliati, nascosti, ignorati, ricostruiti, affaticati, demoliti, trasparenti, ariosi, ventosi, antichi, remoti, tramutati, terremotati, imbruttiti, resistenti. La campagna, la collina, il fiume con i girini, le rane, i serpentelli.

Coltello e bastone, calci al pallone, che poi cadeva nel fiume ed era tutta un'avventura andarlo a recuperare, certe volte il fiume se lo portava via. E penso che lo facevamo un po' apposta, io e mio cugino, a far andare il pallone nel fiume, per crearci l'avventura di andarlo a recuperare. Ci inzuppavamo, i miei genitori non mi sgridavano, mi lasciavano fare, anche quando mi cacciavo in piccoli guai. E poi c'era l'orto, pomodori “sammarzano”, pomodori pachino, pomodori a pera, pomodori cuore di bue. Li chiamavo per nome. Mio padre faceva il buco con “lu pire” e io facevo scendere il semino nel buco nella terra e lo ricoprivamo. Poi usciva la piantina, mettevamo le canne, osservavo mio padre che attaccava la piantina alla canna. Gli facevo tante domande e cantavo per tenergli compagnia. Le canzoni me le inventavo io... Povero papà! Le lumache, la loro tana, le orme del cinghiale, le noci colpite con un lungo bastone, facevamo a gara a chi ne raccoglieva di più. Le amarene, diverse dalle ciliegie. Le ciliegie sono più grandi e dolci, le amarene sono piccole, scure e amare. Mio padre che prova a fare un innesto. Il pero selvatico di nome “Andy” su cui mi arrampicavo. Il mio concetto di natura iniziava notevolmente ad allargarsi. Il fango, i rospi che se li tocchi ti schizzano un liquido che ti trasforma in un rospo pure a te, vassoi di pane e pomodoro e basilico divorati sotto il cachi, il cielo stellato. Ma quante stelle ci sono? Io tutte quelle stelle le ho viste tutte lì per la prima volta. Il suono del fiume che, ora che ci penso, è un ruscello, ma per me era un fiume. Quell'anno che il fiume s'ingrossa e fa paura e arriva al livello dell'argine e vicino al giardino. La prugna regina, dolcissima. Le fave e i cetrioli. La volpe, le pecore, le galline, i pulcini. Il maiale. La macchina per fare le salsicce. Scopro che la pellicina intorno alle salsicce, che mia madre mi dice sempre di togliere e invece a me piace tanto mangiare, in realtà sono le budella del maiale. Lunghissime. La casa di Nazareno e Carina, due contadini meravigliosi, gentilissimi. Nazareno col naso rosso, agilissimo, sale sulle piante, ci offre sempre il vino e l'allegria. Carina, accogliente, sorridente, mani d'oro, mai di fata, cuore di mamma. Un bambino con un caschetto che suona uno strumento strano, si chiama organetto, la sua voce mi ritorna nei ricordi, cantava: la gioventù ca nin murisse maje. Manuel si chiamava quel bambino e oggi fa il musicista. La natura era tutta lì e si aggiungeva un'umanità nuova, sconosciuta in città. Quando tornavo in città mi sembrava di essere stata in un universo parallelo. La quercia grossa. Una quercia centenaria, enorme, pacifica e meravigliosa dove ho sognato di vivere e arrampicarmi, e lo sogno ancora. L'unico posto dove prendeva il telefono, sotto la quercia. Poi per fortuna la quercia decise che manco lì doveva prendere il telefono e quindi da casa, per telefonare, bisogna fare più di un chilometro. Il ramarro! C'è ma non si vede e quando lo scopri...papà ho visto un mostro verde enorme stranissimo che mi guardava!! Papà ho visto una strana farfalla con quattro ali e due teste! E papà: ne sono due. E io: come due? Papà: stanno facendo l'amore. E io: che schifoooo!

E tutta la natura era lì-

E io sono solo un piccolo piccolo sasso.



….fine prima parte!




“Io so il filo che mi lega alle lasagne


ma non conosco il filo che mi lega alle montagne


un lungo filo teso tra montagna e collina


per appendere panni bianchi e carta velina





Filo per filo segno per segno


come un grande enorme disegno


dove io sono disegnato là in basso


proprio come un piccolo piccolo sasso





Un filo dal fondo del mare abissale


lungo fino a un pianeta ovale


giusto adatto per appendere pensieri


quelli gialli antichi quelli di ieri





filo per filo segno per segno


come un grande enorme disegno


dove io sono disegnato in là in basso


proprio come un piccolo piccolo sasso...”



(…..continua.....)



(Antonio Catalano)